Imparò dalla farsa. Ma poi Totò costruì un genere tutto suo, fatto di sketch, brevi battute e una mimica burattinesca
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Goffredo Fofi è uno dei maggiori studiosi di Totò (1896- 1967), ne ha vissuto il mito, non solo quello dell’interprete, ma anche quello del poeta e dello scrittore, perché, come tutti i geni, anche Totò scelse di scrivere i testi che recitava durante gli avanspettacoli e che nascevano dal contatto diretto con la vita di tutti i giorni; aveva scelto, come genere, lo sketch che, nella categoria del comico, appartiene alla scala più bassa, perché la più popolare e, per il suo contenuto leggero, spesso improvvisato, costruito, soprattutto, su ‘soggetti’ inventati dall’attore. Lo si usava nel cabaret, al Circo e, in particolare, nell’avanspettacolo, col compito di unire i vari ‘numeri’ della rivista, una specie di intermezzo che lo si poteva alternare con un monologo o con un balletto.
Il teatro di fine Ottocento, proprio per la sua capacità di trasformare una materia consolidata, come quella delle farsa, utilizzava, spesso, lo sketch, concepito come un prodotto che si faceva notare per la sua immediatezza, simultaneità e dinamismo che non dispiaceva ai Futuristi.
La tradizione napoletana dei Petito e degli Scarpetta, ripresa dai De Filippo, prediligeva il genere farsesco, che divenne una vera e propria scuola per Totò, il quale lo utilizzava, essiccandolo, riducendolo a poche battute che si avvalevano, però, del suo un supporto mimico.
Goffredo Fofi ha raccolto tutti i testi scritti da Totò tra il 1932 e il 1946, nel volume pubblicato da Cue Press, offrendo al lettore un vero e proprio arsenale o laboratorio che fa ben capire da dove nascesse un tipo di comicità epigrammatica, costruita su intuizioni straordinarie che si avvalevano di un interprete eccezionale che, in parecchie occasioni, aveva al suo fianco, attrici come Anna Magnani e Isa Barzizza.
Nella introduzione, Fofi ne dà una lettura di natura sociologica, dato che, a suo avviso, i testi e la maschera di Totò avevano il compito di «scardinare l’ambiente borghese» e, a volte, anche quello politico, tanto che la censura fascista interveniva con continui tagli, riportati, da Fofi, nelle note. È chiaro che lo sketch, in generale, si fonda sulla gestualità, sulla deformazione, sullo storpiamento delle parole, sulla ripetitività di rime baciate, trasformate anche in ritornelli. Eppure si tratta di una comicità che nasce dalle frustazioni dovute alla miseria, alla fame, alle conseguenti vigliaccherie per sopravvivere, Totò diceva: «Io so a memoria la miseria, è il mio copione. Non si può essere attori comici senza aver fatto la guerra con la vita».
Negli anni Trenta, la situazione economica non era certo prospera, molta gente moriva di fame, la medesima che Totò rendeva protagonista dei suoi sketch, ricorrendo, per evitare la censura, a situazioni paradossali o surreali, oppure all’azione marionettistica e burattinesca, con quel tanto di meccanicità, teorizzata da Bergson nel suo noto saggio: Il riso (1900).
Sandro De Feo scrisse, a proposito di Totò, che era «l’equivalente, nel suo campo, delle figure di Picasso o della musica dodecafonica». Basterebbe leggere sketch come La scampagnata, per capire quali fossero le origini della sua comicità, costruita, appunto, sulla fame, sulla furbizia, intesa come sopravvivenza, o sarebbe sufficiente leggere: Nel separé, che ha come argomento l’amore clandestino, reso impossibile dalla povertà degli amanti. Non mancano gli sketch costruiti sul travestimento, con Totò nelle sembianze di un bambino o di un manichino per evitare la collera dei mariti traditi, nei quali faceva prevalere le sue qualità mimiche, travestimento che troviamo ancora nello sketch della Cameriera. Più ricchi sono gli sketch scritti negli anni Quaranta, come L’Orlando curioso, Il figlio di Iorio, Salomé, che riprendono storie abbastanza note, rese ridiole dalla destrutturazione comica. Il più noto è lo sketch, L’onorevole in vagone letto, conosciuto dal grande pubblico dei suoi film, un pubblico che amava, tanto da dire a un interlocutore: «Vedrai che il pubblico, alla fine, ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di risate».